Nei mesi scorsi abbiamo avuto il piacere di essere coinvolti nello spettacolo teatrale "Sorgete Donne", prodotto dal Collettivo Collegamenti in collaborazione con l’Associazione Ventottozerosei, con il sostegno di una rete di Comuni (Montemarciano, Chiaravalle, Sirolo, Corinaldo, Ancona) e il Patrocinio della Commissione Pari Opportunità della Regione Marche e del Comune di Senigallia.
Il titolo dello spettacolo riprende l'appello che, nel 1906, la scienziata Maria Montessori lanciava alle donne italiane dalle pagine del quotidiano “La Vita” per invitarle ad iscriversi alla Commissioni elettorali delle proprie città e andare a votare, dato che nessun articolo della legislazione del tempo lo vietasse formalmente. All'appello risposero affermativamente anche dieci maestre marchigiane che, per quasi un anno, furono iscritte alle liste elettorali (unico caso in Italia) grazie a un giudice illuminato della Corte di Appello di Ancona, Lodovico Mortara, che accettò la loro domanda di iscrizione.
La domanda venne poi rigettata, ma il fatto fu di una portata simbolica potentissima. Una portata potentissima da cui lo spettacolo trae origine per poi raccontare la storia dei diritti conquistati dalle donne.
In occasione della Giornata internazionale della Donna, vogliamo ricordare dunque la nostra partecipazione allo spettacolo e ringraziare gli organizzatori per averci coinvolti. Come Antigone Marche, il nostro intervento è stato descrivere e raccontare il carcere vissuto dalle donne. Lo abbiamo fatto attraverso la voce e la presenza della nostra Maria Vittoria Pichi. E le sue e nostre parole sono state queste:
È dal1998 che l'Associazione Antigone, autorizzata dal Ministero della Giustizia, visita i quasi 200 Istituti penitenziari italiani e ogni anno redige un rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, di fatto unico strumento di conoscenza per chiunque si avvicini alla realtà carceraria: media, studenti, esperti, forze politiche.
L'Osservatorio fa riferimento nel proprio lavoro agli standards elaborati dal Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura e delle pene.
Antigone Marche attualmente ha sportelli di incontro con i detenuti nelle carceri di Pesaro, Fermo e nel carcere di Monteacuto di Ancona, garantendo almeno un ingresso al mese, grazie alla determinazione delle volontarie e dei volontari. Nelle Marche solo a Pesaro è presente una sezione femminile con una capienza di 11 ma con la presenza, al 30/9/2022, di 23 detenute, di cui il 30% in attesa di giudizio.
Prima di entrare nell’argomento, vorrei sottolineare un aspetto che credo nessuno prenda mai in considerazione quando si parla di carcere. In carcere ci si può finire da innocenti. Senza averlo mai immaginato, per una coincidenza, per una omonimia, per uno scambio di persona, per situazioni estranee alle proprie scelte, alla propria vita.
Dal 1991 al 2021 tra ingiuste detenzioni e errori giudiziari in senso stretto, 30230 persone hanno vissuto la prigionia ingiustamente, circa 1000 ogni anno. Non lo auguro a nessuno! e considerare il carcere come uno spazio così distante dalla nostra vita da non farci chiedere nulla su cosa sia veramente, da non informarci, da non cercare soluzioni alle tante criticità, risponde secondo me a una paura profonda che io sostengo, data la mia esperienza di innocente imprigionata per tre mesi e mezzo nel carcere della Giudecca di Venezia, essere giusta: il carcere sì, fa paura, è la gattabuia, il buco nero che ci minaccia fin da bambini, il pozzo in cui si cade e da cui si teme di non uscire più.
Credo sia proprio per allontanare quella paura, che tutti sono pronti ad emettere sentenze, a non credere alle dichiarazioni di innocenza, a non chiedersi cosa può aver provocato l’atto illegale, invocando sempre più istituti carcerari e sempre più punitivi e più contenitivi, chiavi buttate per sempre, immaginando e sproloquiando poi su condizioni troppo agiate della vita reclusa, su percorsi alternativi o libertà concessi troppo facilmente, senza voler sapere quale sia la realtà: il carcere è il vuoto, il buio, il tempo che si ferma, i legami che si spezzano, l’aria ferma che, un soffio alla volta, ti toglie il respiro e ti vuole togliere l’identità.
Perché il carcere, tranne poche eccezioni, è ancora solo questo e, di conseguenza, non se ne può certo uscire migliori né rieducati. Lo dicono i dati: a parte lo sconvolgente numero di suicidi e di fenomeni di autolesionismo, più del 60 % dei detenuti è recidivo.
Nelle carceri italiane ci sono grossi problemi strutturali, mancanza di manutenzione, sovraffollamento, troppo pochi percorsi scolastici e professionalizzanti, poche opportunità di lavoro, pochi educatori o altro personale per le attività trattamentali e scarsa assistenza medica. L’art.27 della costituzione dove si afferma “l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” e “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, è completamente disatteso.
Questo anche a fronte di riforme, decreti, inviti e anche sanzioni dalla corte europea dei diritti dell’uomo. Per le donne tutto diventa ancora più difficile. La storia della detenzione femminile risente tuttora, ovviamente, della cultura patriarcale. La donna deviante, che cioè contravviene alle regole che la società (maschile) si è data, non è mai stata considerata, in ragione della sua supposta inferiorità biologica e psichica, come portatrice cosciente di ribellione, ma o una “posseduta” (ad esempio strega) o una malata di mente (ad esempio isterica).
La donna delinquente, la donna colpevole, è sempre stata anche considerata macchiata dalle stigmate di aver rinnegato, commettendo il reato, la propria natura femminile tradizionalmente dedita alla maternità e alla cura; colpevole dunque, non soltanto di fronte alla legge scritta dagli uomini, ma anche verso quella di “natura”. La donna delinquente subisce e ha sempre subito, dunque, una doppia emarginazione sia perché colpevole, sia perché donna degenere e, eventualmente, anche madre degenere.
Dalla fine dell’ottocento fino praticamente alla riforma del 1975, le donne venivano rinchiuse soprattutto per atti lesivi di valori morali e per comportamenti considerati “troppo liberi”, erano vagabonde o prostitute o addirittura zitelle, o adultere o semplicemente povere o, peggio ancora, ribelli. Dovevano essere corrette nella loro personalità più che punite. Gli istituti in cui venivano rinchiuse erano gestiti da religiose, senza nessun controllo da parte dello Stato, cosa che non accadeva per gli uomini, rinchiusi comunque solo in presenza di atti lesivi di precisi beni giuridici.
La custodia delle suore era impostata quindi non tanto sulla punizione, ma sulla “correzione” dell’errore commesso, sui principi della preghiera, dei lavori di pulizia degli spazi comuni, riproducendo così un modello culturale di sottomissione, dominato da una disciplina basata sul paternalismo ma garantita da figure prevalentemente femminili. Anche oggi c’è la tendenza, negli istituti femminili, a privilegiare la presenza di genere per gli operatori, e a volte anche per i volontari, mentre non si fanno preclusioni di sorta nei maschili.
In Italia ci sono quattro istituti femminili, a Venezia, Roma, Pozzuoli e Trani, e 52 piccole sezioni, come appendici degli istituti maschili, che, se da un lato dovrebbero permettere una continuità di relazione con l’ambito famigliare vicino per territorio, penalizza di fatto le donne perché, essendo un numero esiguo rispetto al numero dei maschi detenuti, vengono private spesso e quasi completamente, di tutte le attività che vengono proposte nel maschile, persino di uno spazio adeguato per l’ora d’aria.
Per le donne non viene fatta nessuna proposta universitaria, così come è molto difficile trovare corsi di formazione professionale e l’offerta di lavoro spesso è limitata alla cura dell’istituto stesso!
Le donne recluse sono tra il 4 e il 5 % della popolazione detenuta e questo dato è immodificato dai primi del 900. Negli ultimi anni le donne migranti sono arrivate ad essere circa il 37 % delle detenute, sostituendosi alle italiane, ma senza modificare la percentuale di presenza femminile nelle carceri, tra il 4 e il 5%. Va quindi sempre considerato il basso numero di reati commessi dalle donne, reati soprattutto contro il patrimonio e legati alla violazione della legge sugli stupefacenti. Vengono per lo più da condizioni di marginalità, di miseria, con mancanza di riferimenti esterni, anche abitativi, e questo spesso è l’alibi per cui per le donne la custodia cautelare, cioè il carcere in attesa di giudizio, viene utilizzata più che per gli uomini.
Per le donne la perdita della libertà è l’allontanamento da quello che vivono come dovere di tutela e cura, è la disintegrazione della famiglia di cui sono le sostenitrici emotive e questo comporta la consapevolezza che, venendo incarcerate, i famigliari, compresi i propri figli, non hanno più qualcuno che li badi. Spesso loro stesse non hanno più dall’esterno quel supporto che non manca ai maschi detenuti.
È una doppia emarginazione, come detenuta e come donna, e il distacco dagli affetti e l’impossibilità di vivere pienamente la propria femminilità all’interno di un contesto creato secondo codici e modelli maschili alimenta il senso di colpa e la conseguente somatizzazione del disagio emotivo. Non è un caso che il 65% delle donne al primo ingresso soffrano di amenorrea!
Le problematiche legate alla salute richiederebbero un approccio medico specifico per il “genere”, che tenesse in considerazione la diversa risposta ai farmaci e alle terapie ma per l’esigua presenza di specialisti, spesso l’unico approccio è quello di sedare le ansie, il disagio, con psicofarmaci, portando le detenute a un livello di apatia che le priva sempre più di un senso del sé.
Le donne detenute non sono soggetti vulnerabili, fragili, le vulnerabilità sono le minori possibilità di lavoro e di percorsi professionalizzanti, la deprivazione famigliare, vissuta in modo più forte, più struggente, più angosciante e la passivizzazione cui sono costrette dal modello maschile.
Il carcere porta sempre con sé una buona dose di regressione, dovuta alla spersonalizzazione istituzionale ed alla deresponsabilizzazione, considerando che anche la più banale e la più personale delle decisioni non può essere presa se non dopo che altri si sono espressi nel merito. È la cultura della “domandina”, un modello di trattamento correzionale-premiale, lontanissimo dalla cultura dei diritti.
Le donne che resistono mettono in atto strategie di “cura” per un bisogno di intimità, di ritrovare un proprio spazio, una propria identità attraverso l'attenzione alle piccole grandi cose di cui è costituta ogni giornata: la cura attenta del corpo e degli oggetti personali, l’arredamento e la pulizia della cella; l’adozione di modalità relazionali e comunicative basate sulle manifestazioni di affetto e di contatto fisico, creando nuovi legami contraddistinti da complicità e condivisione.
Attraverso tali gesti, cercano di "ritrovarsi" nella confusione e nella spersonalizzazione che il carcere crea. Tra le donne i rapporti interpersonali rispondono più a logiche di espressione di affettività, che a quelle della comparazione della forza, sia essa forza fisica o forza del prestigio criminale.
Questo, quando avviene, si presenta più per analogia alla realtà maschile, che per profonda convinzione, e nasce dall'esigenza di far fronte all'insicurezza determinata da un ambiente sconosciuto che non appartiene loro.
Molte delle donne detenute sono madri. Madri di figli che portano con sé in istituto, o madri di figli che lasciano fuori, o anche madri mancate, che vedono spezzarsi un sogno, il sogno di diventare madri. Il tema, nelle lunghe ore chiuse, coinvolge tutte, riapre ferite, rinnova sofferenze e l’idea della “cattiva madre” è la doppia pena. Mentre la mancanza di responsabilità paterna passa come normalità e non è mai accompagnata da un giudizio negativo, questo grava sulla madre che vive anche costantemente il terrore che i servizi sociali possano portarle via i figli.
Se i figli sono piccoli, fino a tre anni, averli in carcere è l’ultima delle soluzioni che una madre ricerca ed è quella che vive con più ansia e paura poiché significa esporre il bambino a qualcosa di cui non solo non conosce esattamente le dinamiche, ma della cui realtà percepisce l’assoluta precarietà e mancanza di diritti sia come persona che come madre. I bambini non possono crescere in prigione, e le loro madri, limitate dal regime detentivo e sempre sottoposte ad autorità altre, non possono prendersene cura in autonomia e responsabilità, non possono assolvere ad alcuna funzione educativa e questo aumenta il dolore. Ad oggi, contrariamente alle disposizioni di legge, non sono stati aperti sufficienti luoghi per le pene alternative, ICAM (istituti a custodia attenuata per le madri) e case famiglia e per concedere gli arresti domiciliari si pretende che la donna abbia un domicilio “sicuro”, escludendo così, inevitabilmente e a prescindere le senza casa, le nomadi e le migranti.
Il dettato costituzionale si riferisce alle pene, nella loro accezione plurale e quindi il carcere dovrebbe intendersi come extrema ratio, sia nella fase di espiazione della pena sia, ancor più, in fase cautelare, valorizzando al massimo i possibili strumenti alternativi e non intendendo la privazione della libertà come risposta unica e indifferenziata a prescindere dalle condizioni – personali e materiali – della vicenda criminosa.
Le donne recluse sono poche, la loro criminalità è di poco conto, le pene in genere inferiori a 5 anni, non manifestano violenza nei comportamenti, pertanto potrebbe essere proprio nei circuiti femminili che si potrebbero sperimentare modelli nuovi di trattamento interno e di relazione con il contesto esterno, e attuare una politica di alternative al carcere.
Se non si abusasse della detenzione cautelare, se venissero applicate le leggi a tutela della maternità e della abolizione della detenzione dei bambini e se venisse recepito che la tossicodipendenza va trattata con progetti terapeutici sanitari, gran parte del circuito femminile potrebbe essere svuotato e l’esperienza potrebbe illuminare il cambiamento del carcere di tutti, come è auspicabile e necessario.
Vi invito a guardare il blog di Antigone Marche, a collaborare, ad iscrivervi.
Antigone è aperta a chiunque abbia a cuore la questione della tutela dei diritti umani, di tutte e tutti.
Grazie dell’attenzione